La decisione appare innovativa e potrebbe risolvere molte situazioni che normalmente sembrerebbero senza via d’uscita. Nell’articolo un breve commento.

La problematica è fin troppo ricorrente: l’abitazione famigliare (o un qualunque altro immobile di proprietà) diviene oggetto di esecuzione forzata da parte della banca a causa del mancato rispetto degli obblighi di rimborso delle rate del mutuo ipotecario.
In altre parole, il debitore che non è più in grado di pagare con regolarità il mutuo garantito da ipoteca si espone all’azione di recupero da parte dell’istituto bancario, il quale – dopo aver esperito una serie di atti prodromici – notifica l’atto di pignoramento e, quindi, avvia la procedura di esecuzione forzata che si conclude con la vendita all’asta dell’immobile pignorato, spesso ad un prezzo inferiore rispetto al valore di mercato del bene.
A questo canovaccio ormai tristemente noto, possono aggiungersi ipotesi in parte differenti ma i cui esiti finali appaiono simili a quanto già descritto: ad esempio, ad avviare la procedura esecutiva potrebbe non essere l’istituto titolare del mutuo (il quale, magari, viene pagato regolarmente), bensì altri creditori, le cui azioni individuali sono però in grado di innescare effetti a catena tali da far precipitare la situazione generale.
Qualunque sia l’origine ed lo sviluppo dei fatti che conducono all’apertura della procedura esecutiva, ordinariamente risulta assai difficile per il debitore difendersi efficacemente in tali fasi procedurali.
È vero comunque che l’ordinamento italiano prevede strumenti importanti atti a consentire al soggetto esecutato di opporsi o sospendere le procedure a suo carico e dunque evitare che gli immobili di sua proprietà vengano definitivamente ceduti a terzi a seguito di asta giudiziaria.

Ad esempio, l’art. 495 c.p.c. stabilisce che “Prima che sia disposta la vendita o l'assegnazione a norma degli articoli 530, 552 e 569, il debitore può chiedere di sostituire alle cose o ai crediti pignorati una somma di denaro pari, oltre alle spese di esecuzione, all'importo dovuto al creditore pignorante e ai creditori intervenuti, comprensivo del capitale, degli interessi e delle spese”.
“Unitamente all'istanza deve essere depositata in cancelleria, a pena di inammissibilità, una somma non inferiore a un sesto dell'importo del credito per cui è stato eseguito il pignoramento e dei crediti dei creditori intervenuti indicati nei rispettivi atti di intervento, dedotti i versamenti effettuati di cui deve essere data prova documentale. La somma è depositata dal cancelliere presso un istituto di credito indicato dal giudice”.
“Quando le cose pignorate siano costituite da beni immobili o cose mobili, il giudice … può disporre, se ricorrono giustificati motivi, che il debitore versi con rateizzazioni mensili entro il termine massimo di quarantotto”.
Il debitore può dunque presentare istanza di conversione del pignoramento fino al momento in cui venga pronunciata l'ordinanza con cui il giudice dispone la vendita o l'assegnazione dei beni oggetto di procedura esecutiva.
Requisito richiesto dalla norma è, come visto, che il debitore istante provveda a depositare, a titolo cauzionale, una somma pari ad almeno 1/6 dell'ammontare dei crediti vantati dal creditore procedente e dai creditori intervenuti. Se si tratta di espropriazione immobiliare è inoltre prevista la possibilità di dilazionare il debito complessivo in 48 rate mensili, dedotta ovviamente la cauzione iniziale.
Certamente tali disposizioni costituiscono un importante aiuto nei confronti del debitore in difficoltà, il quale, fino all’ordinanza di vendita, è ancora in grado di salvare il proprio patrimonio a patto, però, di versare sin da subito – e previa autorizzazione del Giudice - una parte consistente del dovuto (un sesto del debito complessivo) e rateizzare la restante parte fino a 48 rate mensili. All’atto pratico, tuttavia, tale rimedio risulta nella gran parte dei casi impraticabile. Infatti, il debitore che si vede costretto a subire un esecuzione forzata è normalmente – quasi per definizione – soggetto finanziariamente ed economicamente debole, nonché totalmente escluso dal circuito bancario, e quindi non in grado di affrontare gli ingenti esborsi necessari per la conversione del pignoramento. Occorre infatti sottolineare come le somme richieste in pagamento – in tempi, soli quattro anni, solitamente inadeguati - siano quelle dovute in favore di tutti i creditori, procedente ed intervenuti, oltre alle spese di procedura. Non è poi affatto raro che tali importi siano superiori – e di molto – a quanto ricavabile dalla vendita giudiziaria. Ne consegue la beffa alquanto frequente che, subito dopo l’espropriazione forzata, il debitore si ritrovi indebitato pressappoco come prima dell’esecuzione, salvo non avere più beni a propria disposizione.

Per completezza occorre dire che sussistono altri rimedi a cui il debitore può ricorrere anche in fase avanzata della procedura esecutiva.
In particolare, ai sensi dell’art. 615, comma 2, c.p.c., è consentito proporre opposizione all’esecuzione fino a ché non sia stata disposta la vendita o l'assegnazione a norma degli articoli 530, 552, 569, salvo che l’opposizione sia fondata su fatti sopravvenuti ovvero l'opponente dimostri di non aver potuto proporla tempestivamente per causa a lui non imputabile.
Tale rimedio è esperibile quando si contesti il diritto stesso della parte creditrice a procedere ad esecuzione forzata. È pertanto necessario, in dette ipotesi, dimostrare le ragioni che rendono illegittimo il recupero delle somme. A titolo di esempio, in caso di esecuzione forzata sulla base di rapporti bancari, le ragioni di opposizione potrebbero essere connesse ad anomalie quali: anatocismo, pattuizione di interessi usurari, ritardo nella consegna del danaro, mancanza di espressa pattuizione e specifica capitalizzazione mensile degli interessi corrispettivi, indeterminatezza dell’oggetto del contratto, del tasso d'interesse, del TAEG, ecc.
Tuttavia, tali problematiche vanno vagliate caso per caso; inoltre, non è affatto detto che l’autorità giudiziaria sia disposta a sospendere la procedura di esproprio, preferendo talvolta confermare l’efficacia esecutiva del titolo salvo ovviamente svolgere un’istruttoria separata all’interno di un giudizio parallelo volto ad affrontare le questioni sollevate in sede di opposizione all’esecuzione.
Il quadro delineato descrive quindi una condizione piuttosto precaria per il debitore esecutato.

Il decreto del Tribunale di Como, pronunciato il 24 maggio 2018, Est. Petronzi, si impone in tale contesto procedurale e giuridico, inserendo prospettive assolutamente innovative ed interessanti, potenzialmente idonee a risolvere questioni altrimenti prive di sbocchi se non quelli della vendita all’asta o dell’assegnazione degli immobili del debitore in favore dei creditori.
Mediante una rilettura “creativa”, ma coerente con la ratio della Legge 3/2012, il Giudice comasco omologava un piano del consumatore che prevedeva una proposta di dilazione del credito residuo ancora vantato da un istituto di credito per l’acquisto di un immobile destinato ad abitazione principale del debitore, con una rateazione di 20 anni, offrendo ai creditori il pagamento della complessiva somma di euro 125.000, quale capitale residuo con tasso di interesse fisso del 2,30% annuo, e con una rata mensile costante di euro 650,27, a fronte del valore stimato dell’immobile, già oggetto di procedura esecutiva immobiliare, di euro 125.108,00 (con prezzo base stimato per il primo esperimento di vendita, applicata la riduzione forfetaria del 15%, in euro 106.341,80).
La banca creditrice vedevasi viceversa respinta la propria opposizione all’omologa da parte del Giudice il quale riteneva ragionevole il piano proposto dal debitore: in particolare, la proposta di durata ventennale del piano risultava, secondo le valutazioni del Tribunale, compatibile con la natura giuridica ed i tempi di rimborso tipici del rapporto di mutuo fondiario; inoltre le somme offerte dal debitore apparivano superiori al prezzo presumibilmente ricavabile in caso di vendita all’asta dell’immobile oggetto di esecuzione posto che costituisce fatto ormai notoriamente apprezzabile quello per cui il mercato delle vendite esecutive immobiliari permette normalmente di ottenere un corrispettivo ribassato rispetto al prezzo reale del bene.
Il provvedimento del Tribunale di Como, dunque, individua nel piano di risanamento dei debiti del consumatore un nuovo strumento di gestione e soluzione delle procedure esecutive, potenzialmente idoneo a risolvere problematiche altrimenti prive di sbocchi positivi per il debitore.
Per quanto detto, gli istituti previsti dalla legge 3/2012 (e, nel prossimo futuro, quelli di cui al d.lgs. n. 14 del 12/01/2019 – c.d. CCII) consentono nuovi approcci per la soluzione efficace delle questioni connesse alla procedure esecutive; oltretutto, sulla scia degli argomenti del Tribunale comasco, anche gli accordi di ristrutturazione dei debiti (e, in qualche misura, anche le procedure di liquidazione controllata) potranno venire letti ed utilizzati per tutelare privati ed imprese dal default e dalla depatrimonializzazione incontrollata dei soggetti esecutati, ferma comunque restando la particolare natura della normativa in discussione, espressione di strumenti finalizzati a tutelare tutte le parti in gioco (debitori e creditori) nelle procedure di gestione della crisi finanziaria e da sovraindebitamento.
Avv. Antonio M. Manco
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