Ormai troppe imprese tirano solo “a campare” o, peggio, sono già sull’orlo del fallimento. Risanare i debiti e rilanciare le aziende è però possibile grazie a norme innovative, spesso sconosciute o sottovalutate sia dagli imprenditori che dai professionisti.

Le aste giudiziarie sono tristemente zeppe di capannoni aziendali, officine e locali artigianali in vendita al miglior offerente. Negli ultimi anni vi è stata una crescita drammatica dei pignoramenti di tali immobili, evidentemente a causa della grave crisi economica e finanziaria che ha duramente colpito la piccola e media impresa italiana. Sfortunatamente la situazione è destinata a peggiorare ulteriormente e il rischio è quello di una desertificazione industriale del nostro Paese.
Le aziende hanno infatti accumulato ingenti debiti negli ultimi anni, che oggi non sono in grado di ripagare. Sia il fisco che le banche presentano ovviamente il conto e, molto spesso, l’unica strada percorsa è quella di pignorare i capannoni e sperare di rientrare almeno in parte dei crediti pretesi.
Questa situazione, tuttavia, risulta essere nefasta per diversi ordini di motivi: innanzitutto, il pignoramento e la vendita in asta degli immobili e dei beni aziendali comporta, nella grande maggioranza dei casi, la fine dell’impresa stessa, che non è più in grado di riprendersi dal trauma dell’espropriazione forzata; ne deriva, quindi, la perdita di posti di lavoro e la cessazione di realtà artigianali e industriali che hanno resto celebre la manifattura italiana nel mondo; infine, le stesse banche e Agenzia delle Entrate Riscossione rimangono, quasi sempre, insoddisfatte, non riuscendo a recuperare per intero il proprio credito.

In definitiva, quello delle aste pubbliche sui beni aziendali è un gioco a perdere: ci perdono le imprese, ci perdono i lavoratori, ci perdono i creditori e ci perde, in generale, il tessuto economico e sociale del Paese.
In questi casi, gli imprenditori che non hanno ancora smarrito completamente le speranze tentano di individuare soluzioni solo raramente risolutive come opposizioni all’esecuzione, trattative con i creditori per nuove dilazioni o stralcio dei debiti, ecc.
Alcuni imprenditori fanno poi un errore particolarmente grave, tentando di riacquistare il capannone in asta in via indiretta, mediante l’intervento di un terzo acquirente “amico”. Tale ultima strategia è però ai limiti (e talvolta oltre i limiti) della legalità. Inoltre, riacquistare il capannone in asta non costituisce mai una vera soluzione: procedendo in tal modo, infatti, l’imprenditore finisce per indebitarsi ulteriormente senza risolvere le cause che lo hanno condotto allo stato di crisi in cui è caduto. Così agendo, inoltre, l’impresa non fa che rimandare ed aggravare la propria condizione di crisi. In tale prospettiva, l’azienda – anche se sopravvive – è un “morto che cammina”, senza alcuna reale possibilità di risanamento e di crescita.
In tale quadro fosco esistono però delle soluzioni, grazie alle quali l’azienda non solo può liberarsi completamente dai debiti, ma anche salvare i propri beni, mobili ed immobili, e pianificare un risanamento di lunga durata finalizzato alla crescita dell’impresa e non alla mera sopravvivenza della stessa.
Per comprendere meglio quanto ci si appresta a dire, bisogna preliminarmente ribadire un concetto già espresso: la vendita in asta giudiziaria dei beni aziendali costituisce una sconfitta per l’intero sistema economico e imprenditoriale. Partendo da questo presupposto, si possono meglio capire i principi che sono alla base della normativa di settore.
Il principale strumento a cui gli imprenditori in crisi possono ricorrere è quello dell’Accordo di ristrutturazione dei debiti. Non si tratta, è bene saperlo, di un mero accordo che il debitore tenta con i propri creditori al fine di ottenere un saldo e stralcio del debito o una dilazione dei pagamenti, bensì una procedura specificamente codificata dalla Legge 3/2012 e dal Codice della Crisi d’impresa per la pianificazione di una via d’uscita dai debiti aziendali senza che ciò comporti il definitivo dissesto dell’impresa o la liquidazione della stessa.

Quando una proposta di Accordo è ben realizzata, essa consente di coinvolgere i creditori in un piano di rilancio generale dell’impresa in crisi. Agenzia delle Entrate, Banche e altri creditori vengono infatti chiamati ad una assunzione di responsabilità e posti dinanzi all’alternativa fra il “fallimento” dell’impresa ed il suo risanamento. Può ovviamente darsi che i creditori non si dimostrino sufficientemente ragionevoli e pretendano di condurre fino in fondo l’azione di recupero nei confronti dell’azienda debitrice, con tutto ciò che ne consegue. In tali casi può essere determinante il ruolo del Tribunale, anch’esso coinvolto nella procedura dell’Accordo. Il Giudice, infatti, interpellato dall’impresa debitrice, potrà stabilire, in maniera vincolante anche per i creditori reticenti, che la proposta avanzata dall’azienda sia quanto di meglio possa realizzarsi nel caso concreto. In tal modo l’Accordo può essere in qualche misura, addirittura, imposto nei confronti di chi, fra i creditori, non intenda avvalorare le proposte di rientro dal debito formulate dall’impresa in crisi.
I tempi attuali richiedono strumenti nuovi ed effettivamente risolutivi. Le imprese devono smettere di “tirare a campare” nel difficile contesto economico attuale, magari accumulando debiti in attesa di periodi migliori.
Il ruolo dei professionisti è quindi quello di sviluppare strategie che consentano all’impresa di continuare la propria attività, risanare i debiti possibilmente coinvolgendo i creditori e quindi sviluppare piani più efficienti di crescita. Gli strumenti di Legge per ottenere questi risultati ci sono, occorre però conoscerli e applicarli correttamente.
Avvocato Antonio M. Manco
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