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Imposta di registro e "causa concreta" dell'atto registrato: critica all'ordinanza n. 23549/19 Cass.

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di Antonio Manco

Avvocato tributarista

 

1. L’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986 alla luce della sua recente evoluzione.

L’imposta di registro è un tributo che si applica agli atti soggetti a registrazione, sia che essa avvenga su base volontaria (ad esempio nel caso di registrazione di contratti), sia che avvenga d’ufficio (ad esempio nel caso di registrazione di sentenze).

Storicamente il tributo in questione è considerato una “imposta d’atto”, destinato cioè ad incidere sulla manifestazione di ricchezza emergente dai singoli atti registrati[2]. Il presupposto è dunque costituito dalla sostanza giuridica dell’atto di volta in volta registrato, in quanto produttivo di effetti giuridici, e non, viceversa, dal contenuto economico dell’atto medesimo.

L’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986 (Testo Unico Registro, TUR) è norma centrale e da sempre piuttosto controversa, essendo deputata a disciplinare il criterio mediante il quale si applica l’imposta di registro.

Prima della modifica apportata dall’art. 1, comma 87, lett. a) della Legge 27 dicembre 2017, n. 205 (Legge di Bilancio 2018), la formulazione dell’art. 20 recitava: “L’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente”.

Attualmente, a partire quindi dalla suddetta modifica operata a partire dalla Legge finanziaria 2018, l’art. 20 T.U.R. stabilisce che “l’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, sulla base degli elementi desumibili dall’atto medesimo, prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi”.

La novella normativa, dunque, ha precisato la portata applicativa della norma, ribadendo quello che, a parere dello scrivente nonché della quasi unanime dottrina[3] e di non trascurabile parte della giurisprudenza di merito[4], costituisce il tradizionale ed inequivocabile significato che ad essa va attribuito, sia dal punto di vista storico che in considerazione della ratio da sempre ad esso sottesa[5].

In realtà la recente modifica legislativa è intervenuta all’interno di un contesto di netto e radicale contrasto interpretativo fra la suddetta dottrina e Giurisprudenza di merito, da un lato, ed un granitico orientamento della Giurisprudenza di legittimità, dall’altro.

La Cassazione, infatti, appare da sempre fortemente orientata ad attribuire all’art. 20 T.U.R. la natura di norma diretta alla tassazione dell’effetto economico che si produce mediante la concatenazione di una serie di atti correlati anziché colpire gli effetti giuridici del singolo atto sottoposto a registrazione secondo la sua intrinseca natura[6]. In questo modo, assume rilevanza il collegamento negoziale, il quale consente agli Uffici di esercitare, impropriamente, un potere di riqualificazione degli atti comportando una tassazione diversa da quella che sarebbe stata applicata ai singoli documenti.

Ebbene, a partire dalla modifica operata dalla Legge 27 dicembre 2017, n. 205, l’art. 20 ha (o meglio, avrebbe) trovato finalmente la propria corretta ed esatta collocazione applicativa nonché interpretativa, posto che si stabilisce in maniera esplicita che “L’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente”.

A questo punto, appurato che, perlomeno a partire dalla modifica dell’art. 20, la qualificazione dell’atto ai fini dell’imposta di registro deve essere operata sulla base dei soli elementi contenuti nell’atto stesso, non rilevando gli elementi extratestuali o l’esistenza di eventuali altri atti collegati, le problematiche interpretative si sono spostate sul problema se la novella in questione costituisca o meno una norma interpretativa.

Sul punto è intervenuta l’ordinanza della Corte di cassazione, n. 7637/2018, nella quale – coerentemente con la propria storica impostazione interpretativa – i giudici di legittimità hanno ritenuto che la “nuova” disposizione “introduce dei limiti all’attività di riqualificazione giuridica della fatti specie che prima non erano previsti”, in tal modo determinando “una rivisitazione strutturale profonda ed antitetica della fattispecie impositiva pregressa”.

Come però ha correttamente rilevato la migliore dottrina[7], “Nella sostanza, nel negare la natura interpretativa delle modifiche considerate, la Corte rifiuta di ammettere che dell’art. 20 erano prospettabili, e di fatto sono state prospettate (dalla prevalente giurisprudenza di merito e dalla dottrina), interpretazioni opposte alle proprie, ugualmente, se non maggiormente, compatibili con la sua formula letterale”.

L’approccio tenuto dalla Suprema Corte con l’ordinanza n. 7637/2018 denota, pertanto, un rifiuto di ammettere l’evidenza, ossia la concreta ricorrenza, con riferimento all’art. 20, di una situazione di conflitto tra diverse correnti interpretative, meritevole di un intervento dirimente da parte del legislatore.

Peraltro, la rigidità interpretativa della Corte appare ancora più evidente se si considera che la stessa a svaluta espressamente la circostanza che “la relazione illustrativa alla Legge 205 del 2017 assegna alla disposizione concernente l’imposta di registro il compito di ‘chiarire’ il criterio di individuazione della natura e degli effetti che devono essere presi in considerazione ai fini della registrazione. Tale elemento può, infatti, agevolmente superarsi sulla base del tenore testuale infine adottato dallo stesso art. 1, comma 87, in esame, il quale dichiara espressamente di apportare talune ‘modificazioni’ al D.P.R. 131 del 1986, art. 20 palesandosi così quale disposizione prettamente innovativa del precedente assetto normativo”.


2. La rimessione dinanzi alla Corte costituzionale del nuovo art. 20 T.U.R.

Su tale sfondo si innesta il comma 1084 della Legge di bilancio 2019, il quale prevede che “L’art. 1, comma 87, lettera a), della Legge 27 dicembre 2017, n. 205, costituisce interpretazione autentica dell’art. 20, comma 1, del testo unico di cui al Decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131”.

La formulazione del suddetto comma ribadisce, pertanto, ciò che già era chiaro a partire dalla lettura dell’art. 20 del T.U.R. già modificato dall’art. 1, comma 87, lettera a), della Legge 27 dicembre 2017, n. 205: il nuovo art. 20 del T.U.R. va qualificato come interpretazione autentica e, conseguentemente, l’Amministrazione finanziaria può valutare, ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro, unicamente gli elementi desumibili dall’atto oggetto di registrazione, a prescindere dai dati extratestuali e dagli atti ad esso collegati. Ciò, peraltro, da sempre e, quindi, già da prima della novella intervenuta nel 2017.

È a questo punto che la Suprema Corte interviene nuovamente, con l’ordinanza n. 23549/2019 del 23 settembre 2019, già oggetto di commento su Altalex[8].

Con essa è stabilito che “È rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, in rapporto agli artt. 53 e 3 Cost., dell ’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986, come risultante dagli interventi apportati dalla Legge di bilancio 2018 e dalla Legge di bilancio 2019, nella parte in cui dispone che, nell’applicare l’imposta di registro secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, si debbano prendere in considerazione unicamente gli elementi desumibili dall’atto stesso, prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi. Si dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale”.

La Corte di cassazione, dunque, dopo aver stabilito – in maniera sin da subito fortemente criticabile - che la modifica apportata all’art. 20 T.U.R. non aveva valenza retroattiva e, inoltre, dopo essere stata in ciò smentita dal legislatore con il nuovo comma 1084 della Legge di bilancio 2019, ha deciso di contrapporsi nuovamente al Parlamento tentando una nuova strada “per riprendere le redini della funzione creativa[9].

Fulcro e sintesi di ogni argomentazione fornita dalla Corte di Cassazione in merito al reale significato dell’art. 20 T.U.R. è data dalla considerazione per cui, nel sistema dell’imposta di registro, la sostanza vincerebbe sempre sulla forma.

Contrariamente a quanto emerge dal vigente testo dell’art. 20 del T.U.R., dunque, andrebbero evidenziati gli elementi interpretativi esterni ed il collegamento negoziale al fine di pervenire alla qualificazione dell’atto secondo parametri sostanzialistici.

Per i giudici di legittimità, tale orientamento interpretativo sarebbe imposto dalla valorizzazione del principio di capacità contributiva (art. 53 Cpst.), dovendo l’atto essere qualificato in base agli effetti giuridici dallo stesso prodotti alla luce dello “scopo economico unitario ed ultimo infine raggiunto dalle parti proprio attraverso la combinazione ed il coordinamento degli effetti giuridici dei singoli atti”, realizzandosi in questo la “causa concreta” dell’atto e disvelandosi la sua intrinseca natura.

Secondo gli Ermellini, dunque, “le manifestazioni di forza economica (e quindi di capacità contributiva) non sembrano razionalmente differenziabili a seconda che le parti abbiano stabilito di realizzare il proprio assetto di interessi con un solo atto negoziale, piuttosto che con più atti collegati”.

È importante evidenziare come, per la Corte di cassazione, l’art. 20 del T.U.R. non costituisce una norma finalizzata a combattere ipotesi di abuso del diritto, dettando la stessa una mera regola interpretativa il cui impiego non è condizionato al rispetto delle garanzie procedimentali di cui all’art. 10-bis della Legge n. 212/2000 (ed in precedenza di cui all’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973).

Ne deriva che, secondo tale lettura, nessuna valenza possono avere eventuali ragioni non marginali extrafiscali che giustifichino la combinazione negoziale considerata dall’Ufficio.


3. La critica

L’ampia motivazione resa nell’ordinanza in discussione francamente non convince, come già è stato accennato in premessa, per una serie di ragioni.

Innanzitutto, già da una prima lettura del provvedimento della Suprema Corte, emerge una certa autoreferenzialità delle motivazioni proposte. Ed infatti l’asserita immanenza dell’assioma rivendicato quale principio cardine dell’ordinamento italiano – ovvero quello per cui la sostanza prevarrebbe sulla forma degli atti sottoposti a registrazione - viene agganciato quasi esclusivamente ai precedenti giurisprudenziali resi nel tempo dalla medesima Corte di cassazione.

La presunta incostituzionalità della norma novellata, per non tenere la stessa in conto il collegamento negoziale tra più atti ai fini dell’individuazione di una maggiore capacità contributiva del singolo atto sottoposto a registrazione, si fonda dunque su quella stessa giurisprudenza di legittimità che il legislatore ha con ogni evidenza inteso contraddire mediante gli interventi degli ultimi anni.

Ciò, a ben vedere, più che dimostrare la violazione dell’art. 53 Cost., giova semmai a svelare il presumibile reale intento della Corte. E cioè di bypassare l’intervento interpretativo del legislatore (che a sua volta aveva posto termine ad un consolidato filone giurisprudenziale) con modalità diverse rispetto ai tentativi sinora esperiti. Non giova a rendere più convincente il ragionamento della Corte un eccentrico richiamo, nell’incipit del par. 4.2, al preteso rispetto di “un criterio di tassatività e predeterminazione impositiva che resta aderente all’art. 23 Cost.”. Eccentrico giacché proprio il denegato accoglimento delle istanze di incostituzionalità della Cassazione determinerebbe l’esito opposto: l’infrazione dell’invocato criterio di tassatività e il de profundis della predeterminazione normativa[10].

In secondo luogo, l’operazione svolta dalla Corte di cassazione appare ermeneuticamente erronea. Essa, con ogni evidenza, seleziona e valorizza solo uno dei possibili significati da attribuire al testo dell’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986 ante novella. Dopodiché, ignorando del tutto gli altri possibili significati della norma, innalza la propria interpretazione dell’art. 20 T.U.R. a principio immanente e irreformabile dell’ordinamento giuridico italiano.

Tuttavia, come è già stato ampiamente sottolineato, la novella normativa non ha fatto che precisare e valorizzare un significato della norma che era già immanente nella stessa sin dalla sua originaria redazione, così come è stato evidenziato nel tempo sia dalla dottrina che da considerevole giurisprudenza di merito[11].

Ebbene, come è stato più volte ribadito dalla Consulta, “va riconosciuto carattere interpretativo alle norme che hanno il fine obiettivo di chiarire il senso di norme preesistenti ovvero di escludere o di enucleare uno dei sensi tra quelli ritenuti ragionevolmente riconducibili alla norma interpretata, allo scopo di imporre a chi è tenuto ad applicare la disposizione considerata un determinato significato[12].

Non vi è dubbio, pertanto, che – anche alla luce della giurisprudenza della Corte costituzionale - perfettamente legittimi appaiono gli interventi legislativi modificativi ed interpretativi che hanno interessato la norma di cui si dibatte, essendo tali interventi finalizzati a valorizzare e a chiarire uno dei possibili sensi tra quelli ritenuti ragionevolmente riconducibili alla norma interpretata[13].

In terzo luogo, l’ordinanza della Corte di cassazione, n. 23549/2019, desta preoccupazione anche su di un piano più generale e sistematico. Ed infatti, il c.d. principio della prevalenza della sostanza sulla forma, se inteso nella sua portata più ampia, potrebbe condurre ad una vera e propria destrutturazione del principio di legalità nell’ordinamento tributario[14] in favore di un diritto vivente attuato attraverso una giurisprudenza onniscente ed un’Amministrazione finanziaria sempre più creativa nelle proprie scelte.

Ad ogni modo, anche a voler dare una lettura più cauta, l’ordinanza in commento non può che destare forti perplessità se non altro sul piano della certezza del diritto, che appare fortemente incrinata in virtù dell’atteggiamento sempre più protagonista di certa giurisprudenza oltre che della tecnocrazia, il tutto a detrimento dei diritti del contribuente.

Non convince infine, la svalutazione operata dall’ordinanza n. 23549/2019 dell’art. 10-bis, legge 212/2000. Ed infatti, se la regola interpretativa di cui all’art. 20 T.U.R. continuasse ad esplicare i propri effetti con riferimento agli elementi extratestuali ed al collegamento negoziale, l’art. 10-bis del c.d. Statuto dei diritti del contribuente, con la relativa previsione di non abusività delle operazioni svolte e le maggiori garanzie poste a tutela del contribuente, ne risulterebbe gravemente inficiato nella propria portata, con riferimento alle fattispecie rientranti nello spazio di cui al suddetto art. 20. D’altra parte l’art. 176 del T.U.I.R. “rinvia, quanto alla valutazione in termini di non abusività della predetta combinazione, proprio all’art. 10-bis della Legge n. 212/2000 ed il rinvio non è affatto limitato al comparto delle imposte sul reddito (pur essendo contenuto in una disposizione relativa a quel comparto); cosicché, assumendo la sopravvivenza dell’art. 20 T.U.R. come regola interpretativa che consente di tener conto del collegamento negoziale, ne conseguirebbe una sorta di interpretatio abrogans dell’art. 176 del T.U.I.R. in parte qua”[15].

Alla luce di quanto detto, si ritiene, che una declaratoria di incostituzionalità dell’art. 20 T.U.R., così come da ultimo novellato, costituirebbe un grave vulnus per l’ordinamento tributario italiano nel suo insieme, oltre che con riguardo alla specifica materia dell’imposta di registro.

  1. [1] https://www.altalex.com/documents/news/2019/10/18/imposta-registro-riqualificazione-atti-vaglio-consulta, pubblicato in data 18/10/2019. [2] Cfr., fra gli altri, Massimo Basilavecchia, Quel che resta dell’atto: considerazioni sull’imposta di registro, Corr. Trib., 2019, pag. 476 ss. [3]Cfr. Francesco Tundo, “Sull’efficacia temporale del novellato art. 20 D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131”, in Riv. Dott. Comm., 2018, pag. 783 ss.; sempre di F. Tundo, “Un “legislatore” volitivo restituisce l’imposta di registro alla sua tradizione”, Corr. Trib., 2019, pag. 274 ss; G. Zizzo, “Retroattive le modifiche all’art. 20 del T.U.R.?”, in Corr. Trib., 2018, pag. 2011. In questo senso, anche: Santamaria, “Registro (imposta di)”, in Enc. dir., vol. XXXIX, Milano, 1988, pag. 545; Uckmar, La legge di registro, CEDAM, 1958, pag. 197; Berliri, Le leggi di registro, Milano, 1961, pag. 137; Ferrari, “Registro (imposta di)”, in Enc. giur., vol. XXVI, Roma, 1991, pag. 9; Pignatone, “L’imposta di registro”, in Amatucci (a cura di), Trattatodi diritto tributario, vol. IV, CEDAM, 2001, pag. 167; Puri, “L’imposta di registro”, in Fantozzi, Diritto tributario, Torino, 2003, pag. 992; Boria, Il sistema tributario, Torino, 2008, pag. 759; Ghinassi, “L’imposta di registro”, in Russo, Manuale di diritto tributario. Parte speciale, Milano, 2009, pag. 373; Tesauro, Istituzioni di diritto tributario. Parte speciale, Torino, 2012, pag. 273; Dolfin, “L’imposta di registro”, in Falsitta, Manuale di diritto tributario. Parte speciale, CEDAM, 2013, pag. 897. [4] Cfr.: Comm. trib. reg. Lombardia, Sez. XII, 24 ottobre 2017, n. 4258; Id., Sez. X, 31 maggio 2017, n. 2429; Id., Sez. X, 25 maggio 2017, n. 2322; Comm. trib. prov. di Milano, Sez. I, 23 maggio 2017, n. 3639; Comm. trib. reg. Lombardia, Sez. VII, 8 maggio 2017, n. 1956; Id., Sez. VII, 8 maggio 2017, n. 1954; Comm. trib. prov. di Milano, Sez. XV, 11 aprile 2017, n. 2821; Comm. trib. reg. Sardegna, Sez. VIII, 16 dicembre 2016, n. 386; Comm. trib. prov. di Lecco, Sez. I, 28 novembre 2016; n. 322; Comm. trib. reg. Lombardia, Sez. XXXIV, 13 aprile 2015, n. 1453. [5] Cfr. F. Tundo, “Un “legislatore” volitivo restituisce l’imposta di registro alla sua tradizione”, op. cit. [6]Sull’impossibilità di ravvisare nell’art. 20 una norma di carattere antielusivo, F.Tundo, “La cessione indiretta d’azienda: la Cassazione persevera su una discutibile interpretazione dell’art. 20 della Legge di registro”, in Riv. Dott. Comm., 2014, pag. 618 ss. [7] G. Zizzo, “Retroattive le modifiche all’art. 20 del T.U.R.?”, op.cit. [8] Cfr. nota 1. [9] F. Tundo, “Le torsioni della giurisprudenza sull’imposta di registro e la certezza del diritto”, Corr. Trib., 2019, pag. 979 ss [10] F. Tundo, “Le torsioni della giurisprudenza sull’imposta di registro e la certezza del diritto”, op.cit. [11] Cfr. note 3 e 4. [12] Cfr., fra le altre, Corte cost., 10 giugno 2016, n. 132. [13] G. Zizzo, “Retroattive le modifiche all’art. 20 del T.U.R.?”, op.cit. [14] Cfr. sul punto F. Tundo, “Le torsioni della giurisprudenza sull’imposta di registro e la certezza del diritto”, op.cit. [15] Eugenio della Valle, L’art. 20 T.U.R. di nuovo nell’occhio del ciclone: si salvi chi può, Cor.Trib. 2019, pag. 1053. Esclude che l’art. 176 del T.U.I.R. rilevi nell’ambito della disciplina dell’imposta di registro, Cass., 10 febbraio 2017, n. 3562.

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